Cheers 2 U

Cassian&Vivianne | Brooklyn's Hospital | 11.05.23

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    Cazzo. E' da dieci minuti buoni - o forse di più - che sto osservando lo stesso punto, imbambolato come un manichino di plastica in preda a una visione mistica. So di essere un ragazzo semplice - lasciatemelo credere dai - che si lascia rapire da cose altrettanto semplici, ma ciò che ho davanti sembra essere uscito da un dipinto ancora fresco. Mi fa venire voglia di alzare la voce, di urlare a tutti di alzare lo sguardo, perché sopra le nostre teste c'è uno spettacolo che la natura continua ad offrire a noi poveri, minuscoli, insignificanti esseri. Con il familiare e frizzante sapore della Monster sulla lingua, continuo a contemplare il miracolo dei colori pastello del tramonto, gli occhi sollevati al cielo tinto delle sfumature rosa e arancio che creano uno scenario senza tempo. Può sembrare stupido, ma in quel momento provo una sensazione bellissima. E' come se perdendomi nel magico ed eterno incontro tra luce e buio l'intero mondo si arrestasse, regalandomi momenti di pace dove niente ha importanza. Mi fa sentire come non mi sono mai sentito prima. Mi fa sentire pieno, rinato, grato di ogni cosa che la vita mi ha donato, benché si possano contare sulle dita di una mano le cose belle che ho ricevuto. Però, come le cose belle per l'appunto, il tramonto ha una durata breve. Il tempo di sbattere le ciglia che assisto già al sole calare dietro gli alti e spigolosi edifici di Brooklyn per lasciare spazio al crepuscolo. Continuo a sorseggiare la mia Monster mentre l'ultimo spicchio di luce resiste a occidente, prima di venire inglobata lentamente dal buio crescente. Così come il suo affiorare mi riempie di genuini sollievi e di uno strano ottimismo, il suo svanire mi svuota e tutto l'intero universo sembra tornarmi ostile. Rassegnato torno - finalmente - a concentrare l'attenzione sulla lattina che stringo ancora tra le mani. A proposito di ciò, devo umilmente ringraziare..."Dottoressa Vivianne Comstock-Dixon." Riduco gli occhi a due fessure e allungo il mento in avanti per aguzzare la vista e sembrare un ottantenne alle poste che non riesce a leggere le bollette, poiché l'unica luce artificiale proveniente dall'insegna a neon dell'uscita d'emergenza illumina scarsamente l'ambiente che mi circonda. "Brindo a te doc!" Alzo la mano che regge la Monster per simulare un brindisi alquanto triste, la corda del badge stretta tra le dita dell'altra mano. Il volto raffigurato sul badge oscilla davanti ai miei occhi. Per quanto poco mi è consentito di vedere, mi prendo qualche secondo per analizzare la benefattrice della serata. Pelle giovane, occhi grandi e labbra carnose, oggettivamente è una bella donna. In realtà il mio interesse verso il gentil sesso l'ho smarrito non appena ho scoperto la sagra della salsiccia, ma sarei davvero stupido a negare l'evidenza: è davvero carina e fossi stato etero le avrei chiesto di uscire. Ma ehi, un attimo, riavvolgiamo il nastro del tempo e torniamo alla ragione che mi ha fatto salire fin quassù, sul tetto dell'ospedale. Circa una ventina di minuti fa, ero neel lungo corridoio asettico dove infermieri e medici si alternavano tra le camere, il vociare ovattato di parenti e amici che si ritiravano dalle visite ai degenti, l'insopportabile odore di disinfettante a violarmi le narici. Il mio avversario era davanti a me. Malgrado non potesse parlare nè muoversi, glielo leggevo attraverso il vetro che si stava burlando del sottoscritto. L'avevo guardato con non poco astio, l'avevo afferrato tra le mani per poi scuoterlo violentemente ma presto ogni mio gesto si era rivelato vano. La macchinetta bastarda si era mangiata gli ultimi spicci che mi erano rimasti nella tasca - non che io sia solito portare molti soldi dietro - senza offrirmi nulla in cambio e la bramosia di essere dissetato con le mie amate Monster si era fatta sempre più sofferente. Come un tossicodipendente in astinenza che avbrebbe fatto di tutto pur di avere l'oggetto della sua agonia, avevo speso il resto del tempo ad inveire contro la stupida scatola metallica con gentili carezze ad accompagnare le mie parole altrettanto gentili. Finchè il destino sembrò aver ascoltato le mie richieste: ad un certo punto un rumore assordante aveva fatto sobbalzare tutti i presenti, me incluso, facendo puntare la nostra attenzione al centro del corridoio, laddove un goffo infermiere stava raccogliendo da terra una serie di oggetti a me sconosciuti ma che indubbiamente sarebbero serviti nelle sale operatorie, alle sue spalle un carrello metallico alto quanto lui, apparentemente metà vuoto. Tra il personale che si era affrettato a dargli una mano a ripulire il casino avevo scorto una figura femminile, chioma bruna e il badge che faceva capolino dalla tasca del camice. Lo so che sembra un cliché, ma stare con le mani in mano non è da me. Carpe diem. Muovendomi a passo spedito le sono passato dietro e ho sfruttato l'occasione per prenderle in prestito il badge. Ho proseguito poi il mio cammino fino a sparire nel vano ascensore come tutto fosse regolare. Non so come, ma ho resistito all'impulso di voltarmi indietro e scoprire se la dottoressa si fosse accorta del furto. No, mi correggo, proprio furto non è. Lo staff dell'ospedale l'avrebbe magicamente ritrovato qualche ora più tardi, magari su qualche sedile nella sala d'attesa, e la dottoressa si sarebbe promessa di prestare puù attenzione alle sue cose. Tutto risolto e tutti a casa tranquilli. La sensazione provata in quei momenti è stata elettrizzante, come mi fossi iniettato nelle vene una siringa di adrenalina. Ma l'effetto, quello che mi tiene in vita e che solo la mia moto è in grado di donarmi, è durato solo un battito di ciglia. E ora sono qui, seduto sul cornicione del tetto, a godermi lo spettacolo di luci della città che si accendono una dopo l'altra e a rinfrescarmi il palato con le Monster generosamente offerte dalla dottoressa.

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    «Che genialata, eh?» come farmi girare il cazzo, subito, così, a fine giornata.
    Non ci vengo sempre, solo quando ho voglia di spostare qualche ora dal Sacred a qui, che è più vicino a casa, che mi trovo in mezzo alla gente normale, e mi fanno fare poco, molto poco, per lo più guardare. E allora lo faccio apposta di venire, quando so di non avere tante forze per ragionare con la mia testa. Ed oggi è stata una giornata così, senza la testa, come se già lo avessi poi deciso da me stamattina appena svegliata. Come si sceglie un vestito da indossare, un tipo di emozione da provare per tutto il giorno. È un tipo di sensazione che forse mi terrebbe a letto tutto il giorno, e allora anche venire qui è solo il modo crudele che ho di farmi violenza per stare al passo con il mondo, quando il mondo ormai va a una velocità completamente diversa dalla mia. Il mondo corre qui fuori, io sono diventata estremamente lenta, così tanto da vedere questo scompenso, da vedere come tutto mi sorpassi. La cosa peggiore è sapere che non finisce, che non c'è cura, non c'è rimedio. Quel fatto che le persone continuano a vivere nei ricordi di chi resta è una stronzata, per me non funziona. Per me quelle sono immagini di un film che posso riguardare all'infinito, ma che resta una sequenza registrata: non c'è niente di vero, sono solamente dei fermoimmagine che posso estrapolare soltanto per farmi male. È la mia attività preferita, prendere tutti i filmati di Lucian che vivono nella mia testa e tirarne fuori i singoli ritratti, così, immobilizzati nel tempo.
    So di non averla persa la tessera. Vorrei dire che mi sento un genio, ma non è onesto, perché prima di arrivare a delle conclusioni mi sono ripercorsa tutti i corridoi dove ho avuto la consapevolezza di avercela ancora attaccata al camice. E poi ho provato a fare appello alle basi insegnate da papà, e alla fine, mezza sconfitta, sono ricorsa alla magia e ho seguito una traccia, e mentre salivo su verso il tetto ho avuto la conferma di non aver perso niente da sola.
    È proprio l'ora giusta, niente da ridire su questo. Li abbiamo fatti anche noi i deficienti sui tetti degli altri a guardare lo skyline di Manhattan. E ci piaceva, e un cielo del genere sarebbe piaciuto un casino anche a Lucian. Voglio pensare che adesso possa vedersi tutti i cieli del mondo, ovunque sia, se qualcuno ha avuto pietà di concederglielo un qualche paradiso, che qualcuno abbia almeno ascoltato le mie di richieste.
    Ci sarebbe piaciuto un casino, ma ora, forse proprio per questo, mi si è indurito il cuore.
    «C'è poco da brindare, è stata una cazzata immane.»
    Sono diventata più intransigente. Forse proprio perché sono stanca e perché non mi va di ricordare proprio niente, si imbruttisce tutto adesso.
    «E non sono dottore.»
    No, tecnicamente non sono un dottore. Sono una che ci prova, che dovrebbe forse stupirsi anche di più per essere riuscita ad arrivare fin qui, ma non mi riesce gioire di niente adesso, di nessuno sforzo, di nessun traguardo. Mi avvicino per guardarlo.
    «Posso riavere il mio badge o aspetto che tu finisca?»

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    Lascio che le note frizzanti e fruttate della Monster invadano piacevolmente la mia bocca, prima di scendere lentamente giù per la gola. Ad ogni sorso mi sento sempre più rinfrescato, rivitalizzato. Credo di esserne diventato dipendente ormai, anche se ad avvalorare questa tesi ci pensano le pistole realizzate con le lattine collezionate con il tempo. Una parte di me perfino crede che mia madre mi abbia nutrito con i biberon ripieni di Monster anziché di latte. Ed è sorseggiandola che continuo a bearmi dello scintillante spettacolo che mi offre lo skyline di Manhattan. Istintivamente cerco con lo sguardo la luna, consapevole che una volta trovata le avrei dedicato tutta la mia piena attenzione, allo stesso modo con cui mi sono lasciato rapire dai colori nostalgici del tramonto. Non la trovo. Ispeziono con gli occhi lo spicchio di cielo sopra la mia testa ma di lei non c'è traccia. Probabilmente si nasconde ostinata dietro la collina o una grossa nuvola, conscia di essere desiderata da un insignificante essere umano come il sottoscritto. Al suo posto, però, ci sono le stelle che brillano timidamente, un milione di gioielli scintillanti sparsi su un tappeto lilla.
    La magia si spezza quando alle mie spalle giunge una voce femminile che mi fa sobbalzare sul posto, quasi mi fa rischiare di strozzarmi con la bevanda. Non sono un tipo che si lascia facilmente spaventare, ma fino a qualche attimo fa ho creduto che nessuno sarebbe salito sul tetto, che sarei stato l'unico a godere di quella vista rinfrancante dalla cima dell'edificio.
    La luce diurna ci sta abbandonando e ci metto qualche attimo per realizzare che, sì, mi trovo faccia a faccia proprio con la presunta proprietaria del badge. Faccio del mio meglio per camuffare l'espressione sorpresa sul volto, anche se il sorrisetto di chi è stato colto con le mani nella marmellata è inconfondibile. "Oh, salve." Balzo giù dal cornicione e in modo poco elegante mi asciugo le goccioline della bevanda che, sussultando per la sorpresa, mi sono sfuggite dalla bocca servendomi della manica della giacca di jeans. Che cazzo ci fa qui? Come cazzo mi ha trovato? La mia mente corre al corridoio dell'ospedale, alle telecamere di sicurezza che devono avermi ripreso nell'attimo incriminante. Già, è stata una cazzata immane. Ma dissetarmi con la Monster era un bisogno che andava assolutamente appagato, proprio come direbbe un drogato in astinenza.
    Cerco di captare qualunque smorfia o movimento sul volto della ragazza per farmi un'idea di cosa voglia dire o fare. Ma il buio intorno a noi non me lo permette. L'unica cosa che riesco a scorgere nella figura incorniciata da un cielo ormai imporporato sono i suoi occhi enormi. Ho come l'impressione di star guardando due rocce inamovibili, contro cui si infrangono violente onde.
    "Quindi questo sarebbe tuo?" Faccio saettare lo sguardo dalla sua versione in carne e ossa a quella raffigurata in fotografia sul badge, come per appurarmi che sia la stessa persona. In realtà non necessito di conferme, sto solo prendendo tempo per escogitare un modo scamparmela senza finire nei casini. Ho già fin troppe gatte da pelare.
    "Deve esserti caduto." Scrollo le spalle con nonchalance. Sento la punta del mio naso allungarmi ma continuo ad atteggiarmi con una certa tranquillità. Le parole mi escono dalla gola con fluidità e non troppo in fretta, incespicano l'una nell'altra, come è solito accadermi quando sono davvero agitato. "Lo avrei restituito alla receptionist comunque." Con l'esperienza ho capito che è importante condire le bugie con abbastanza verità per rendere credibile il tutto.
    Mi dice che non è una dottoressa e io alzo un sopracciglio con aria impercettibilmente sorpresa. Che lo sia o meno, sinceramente non mi fa alcuna differenza. "Dottoressa o no, voi con i camici bianchi siete tutti uguali. " Le faccio questa piccola osservazione avanzando pochi passi verso di lei. Allungo una mano per restituirle ciò che ho preso in prestito. Ora che ho le Monster, del suo badge posso fare tranquillamente fare a meno. Approfitto della distanza ravvicinata per leggerle l'emozione sul volto, per farmi più o meno una prima idea di lei: ho a che fare con una dolce gattina o una feroce bestia?
    Ad ogni modo, a prescindere dal risultato, penso che sia molto più carina dal vivo che in foto. E non tardo a farglielo notare. "La foto non ti rende giustizia, doc." Non ci sono superfici riflettenti intorno a me, ma non ho bisogno di specchiarmi per sapere che le mie labbra si sono distese in un sorriso né sornione né arrogante, semplicemente una smorfia amichevole per rompere il ghiaccio. E' nella mia natura socializzare con chiunque, perfino con i muri. E io ho bisogno di addolcirla per evitare l'ennesima rogna.
    Ho ancora la fredda lattina tra le dita e allora ricordo di averne un'altra, sigillata, che senz'altro avrei consumato nelle prossime ore.
    "Posso offrirti un pò della Monster?" Non faccio un passo indietro né avanti. Resto sul posto indicandole con un cenno del capo la bevanda dall'etichetta nera e verde fluorescente che ho lasciato sul cornicione. In attesa di una sua reazione, la fisso nuovamente negli occhi, sperando di non venire fulminato.

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    «Sì, deve essermi proprio caduto. Divertente.
    È parecchio tempo che non mi confronto così direttamente con dei no-mag, perché credo sia questo in fondo. Voglio dire, le probabilità sono molto più alte, trovandoci qui, a Brooklyn. Quando sto al Sacred so perfettamente cosa entra e cosa esce, e forse ci ho fatto pure il callo. Sì, sicuramente: quando non fai altro che usare la magia ad un certo punto ti abitui e basta, diventa una normalità, la normalità. Del resto è il mio lavoro, ed è per questo che sto imparando, per fare la cosa giusta. Sta di fatto, in sunto, che devo tornare ad abituarmi a ciò che è realmente normale. Noi facciamo parte piuttosto dello straordinario - o almeno così voglio i numeri, non lo so bene in realtà.
    Il problema vero, ad essere onesti, è che sto perdendo l'abitudine a confrontarmi con la gente, in generale, cosa che di per sé, per quanto detto fino ad ora, pare abbastanza assurdo. È che anche qui mi limito a fare ciò che devo, a seguire degli orari, una tabella, a prendere decisioni che si basano unicamente su intervalli di valori: me lo dicono i referti e le schede cosa fare, è difficile che decida io, anche quando mi è richiesto poi di scegliere veramente. È un modo meccanico, penso, di andare avanti. Ma c'è che se penso troppo, se tolgo il pilota automatico, come minimo faccio colare a picco questo piccolo aereo di linea che va da Brooklyn a Manhattan, e da Manhattan torna a Sunset Park. Forse è solo una fase, una delle innumerevoli, da attraversare rigorosamente tutte. Per arrivare poi, ah non so proprio a cosa o dove. Si tratta solo di rimanere in equilibrio il più possibile, stabilizzare i motori e cercare di evitare troppe perturbazioni. Che aprono falle, e fanno male, cazzo se fanno male.
    «Mh.» Chiedi ad un ortopedico di farti una colonscopia e vedi come cambi idea. Riprendo il badge. Acida. Ma l'ho solo pensato, forse sarebbe stato davvero troppo dirlo, sebbene avesse movimentato un po' la cosa e magari fatto sciogliere un po' la mia faccia di bronzo.
    «Non è importante.»
    Sì, decisamente statica e riflettente. Credo pure che un commento del genere una volta mi avrebbe suscitato una reazione diversa. Non imbarazzo, no, forse… forse più qualcosa di simile allo schifo o a disappunto. Ma tengo ferme le mani sui comandi, che se sobbalzo io qui sobbalza tutto questo aereo.
    «Proposta incredibile. Sei in un ospedale, genio.» e forse ci starebbe qui ribadire tutti i rischi delle recrudescenze della pandemia appena passata e blah blah quella roba lì di cui, insomma, abbiamo avuto la fortuna noi bambini speciali di non dovercene preoccupare. Per cui no, non è proprio il massimo offrire da bere a qualcuno in un ospedale, considerato poi che con grande probabilità potrebbe pure essere un paziente.
    «Stai in qualche reparto o sei semplicemente uno a cui piace guardare il tramonto sui tetti degli ospedali?» che su quello avrei poco da dover accusare. Ci piaceva anche a noi, nel posti sbagliati, nei momenti peggiori fare cose anche peggiori di questa. Ma sento di star quasi scivolando in quella dinamica stupida per cui "se non lo posso più fare io allora non vedo perché dovrebbero farlo gli altri". Indurita, ecco. Offesa dalla semplicità degli altri.

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    "Sì, deve essermi proprio caduto." Non capisco se sia seria o no. Se nel suo tono di voce ci sia una punta di ironia che forse mi è sfuggita. Mi limito ad osservarla, incuriosito, nell'attesa di un qualche gesto che possa tradirla. Mi piace osservare le persone, scrutare, vedere, supporre, attribuire loro dei caratteri. E a volte persino inventarmi storie su di loro. Ma la dottoressa davanti a me non me la rende facile. I suoi occhi sembrano non trapelare emozioni e la linea dura delle labbra non accenna ad ammorbidirsi. Comunque, può credere quello che vuole, io, di sicuro, non sono pentito della cazzata che ho compiuto poco prima. Né mi vergogno di averle rifilato una bugia bella e buona. Non sono insensibile, è che semplicemente ne ho troppi, di pentimenti, mentendo, e non mi va di aggiungere l'ennesimo sassolino sul cumulo che si è formato sulla mia coscienza.
    Delicatissima si riprende il badge. Non spiccia nessun'altra parola. Altrettanto la successiva reazione è breve, stoica, di un'apatia assoluta. Mi lascia abbastanza spiazzato. Non è importante. Né un'espressione imbarazzata né una contrariata le smuovono i tratti del volto. E' davvero raro incrociare donne che accolgono complimenti del genere con assoluta indifferenza. L'impressione di avere a che fare con una roccia inamovibile, forse corrosa da antiche tempeste, si fa sempre più convincente.
    Però, sono piuttosto bravo a rendermi amico di chiunque si metta sul mio cammino, anche i più reticenti. Ed è anche forse per questo che mi metto nei casini, rivolgendo la parola alle persone che poi si rivelano poco raccomandabili. Ma che ci posso fare io. E' più forte di me. Conoscere nuove persone, sentire le loro storie, intrattenerle e farle sorridere mi riempie di soddisfazione. Creedo di essere stato un giullare di corte in una vita passata.
    Però è buffo. Che io conosco tanti di loro e nessuno conosce me, perlomeno il vero me stesso.
    "Proposta incredibile. Sei in un ospedale, genio." Eccola. Finalmente. Una punta di emozione. Faccio un passo indietro sollevando i palmi delle mani che ancora puzzano di detersivo per i piatti. Secondo Internet il sapone di zucca è un ottimo alleato per rimuovere il grasso del motore dalla pelle, come se fosse davvero facile trovare un detersivo del genere nei supermercati della zona. Così mi sono dovuto arrangiare affidandomi a quello che, sempre secondo il web, è la migliore alternativa al sapone di zucca o quel che è insomma. Avrei potuto chiedere consiglio a Noo-ri, ma sono ancora scottato da quello che è successo tra noi recentemente.
    Reparto psichiatrico, vorrei risponderle. Tra Hayoon che non si risveglia dal coma, i sentimenti proibiti che provo per suo fratello e Gideon che mi stringe il cappio al collo l'idea di rinchiudermi in un luogo dove tutti questi pensieri non verranno di certo tenuti in gran conto mi sembra appetibile.
    Mi limito però ad una scrollata di spalle.
    "Decisamente la seconda." Con un lungo sorso mi abbevero di ciò che ne resta della Monster. Indietreggio fino a toccare con la schiena il bordo del cornicione. Mi ci appoggio sopra incrociando le gambe. "E tu..." Faccio una pausa per ricordare il nome della dottoressa, che però mi si affaccia subito in mente. "Vivianne." Stiro pigramente le labbra all'insù accartocciando la lattina tra le mani. L'avrei buttata più tardi. Mica sono un incivile io. "Nah, non sei quel tipo di dottoressa." Non aggiungo altro. La smorfia che ho sul volto si tramuta in un sorriso sornione.
    Ho davanti un puzzle che mi stuzzica a comporre, con mille frammenti sparsi difficili da identificare.


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    «E con "quel tipo di dottoressa" immagino tu intenda quella che darebbe di matto e chiamerebbe la sicurezza per buttarti fuori.»
    Peccato che no, non sono "dottoressa" qui. Resto una semplice specializzanda, così come lo sono al Sacred per la maggior parte del tempo. Qui infatti ci resto sempre troppo poco, quanto basta per rendermi conto come è che funziona un luogo diciamo "minore". Con la magia, funziona in maniera decisamente più semplice, sì, decisamente, solo perché è come giocare con le carte sempre tutte scoperte. Ma credo invece stia proprio lì la difficoltà: imparare ad avere, in un certo senso, le mani legate, per diventare medici e dottori in grado di "fare i medici" senza fare sempre completo affidamento ai propri trucchetti. Me lo sono scelto, è vero, non mi sto lamentando, non è questo il punto. Tutto questo discorso sta qui solo per ribadire il fatto che sto imparando anche io, ma che cerco, almeno qui, di prendermi meno responsabilità possibili. Eppure ne ho fatti di passi avanti, credo almeno. Credo di aver superato la semplice inerzia dei primi tempi: lì prendere iniziative era davvero molto difficile. Lo è pure adesso, ma almeno è diventato una sorta di meccanismo che si impegna a tenermi occupata e a non pensare a tutte quelle cose dove il mio cervello si rifugerebbe volentieri.
    Per me, dunque, può starsene dove vuole, finché non entra nei reparti a fare casino. Poi ci sarebbero altri mille motivi per cui una persona non dovrebbe vagabondare così all'interno degli ospedali, come se fossero delle piazze o delle strade pubbliche, però diciamo che, fin tanto che ci sono anche io qui, mi è più facile pensare di ripulire le tracce della sua presenza piuttosto che impegnarmi a convincerlo di andarsene eccetera eccetera. Di cose discutibili ne ho fatte anche io, ma non ci voglio pensare adesso, perché non ero mai da sola a farle, appunto. Appunto.
    «Per me puoi restare anche qui, se non fai casino.»
    Infilo le mani nei pantaloni e butto uno sguardo oltre il parapetto. La vista non è delle più incredibili, ne ho viste di migliori - smettila di pensarci, Vivianne, cazzo. Di questo passo non combinerò mai nulla.
    È una maschera, cogliona, è una maschera e tu nemmeno ne sei consapevole. E tu pure hai bisogno di stare qui, perché anche al Sacred ci sono cose che, se vuoi finire la giornata decentemente, devi impedirti di ricordare.
    «Il passo riapre tra, credo, un'oretta buona.»
    Devi pure smettere di vivere dentro il tuo cervello, e cominciare a fare i conti con quello che ci sta fuori, che non è solo uno sfondo dei tuoi pensieri, sai? È la roba vera, il mondo reale, anche se sembra aver preso un ritmo totalmente diverso dal tuo. Già. È strano vedere il mondo che va avanti.
    «Chi sei passato a trovare?»

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    "E con "quel tipo di dottoressa" immagino tu intenda quella che darebbe di matto e chiamerebbe la sicurezza per buttarti fuori."
    "Bingo." Ridacchio, sbuffando dal naso, come a confermare quanto ha appena presupposto. La dottoressa è anche sveglia, quindi.
    Mi dice che posso restare qui a condizione che non faccia nulla che possa destare l'attenzione della sicurezza dell'edificio, come un cagnolino che, da bravo, deve attendere il ritorno del padrone senza distruggergli il divano. Mi sembra di percepire della palpabile diffidenza nei miei confronti ma, ehi, non posso biasimarla. Non mi fido di me stesso abbastanza da concedermi la certezza che avrei trascorso un solo giorno senza mettermi nei guai. Per di più sono entrato in possesso del suo badge facendolo passare per un caso di ritrovamento fortuito - anche se con scarso successo a dirla tutta - e direi che fa più che bene a redarguirmi.
    Lo so che le camere di degenza riaprono al pubblico fra un'ora. A furia di venire a trovare Hayoon qui ho imparato a memoria l'orario di visita e ho fatto anche il possibile per combaciarli con i miei, di orari. Anche se non si direbbe io ho un lavoro, uno di quelli seri stavolta, che mi tiene inchiodato in officina per otto ore buone al giorno. Di notte, invece, faccio cose che di certo la polizia non gradirebbe. Cose che non ho scelto io di viverle ma che tuttavia mi permettono di andare avanti.
    Non mi è più consentito vivere liberamente la mia vita, non da quando correre è diventata una questione di vita o di morte.
    "Il mio migliore amico." Le rispondo con un sospiro, quasi liberatorio, come se finora mi fossi trattenuto dall'accettare la realtà dei fatti: uno o due piani sotto di noi, disteso su un lettino e circondato da macchine rumoreggianti, Hayoon sta combattendo per la propria vita.
    In verità non so cosa gli sia successo, o meglio, chi l'abbia ridotto in quelle condizioni. Il corpo costellato di lividi ed ematomi confermano l'ipotesi che non sia stato un incidente a strapparlo quasi dalle nostre braccia.
    Un minimo di indizio ce l'ho, però, e sono in parte sollevato che io non c'entri nulla con la condizione di Hayoon. Sono piuttosto bravo a ferire le persone che mi stanno intorno, volente o nolente.
    "La tua gente l'ha dichiarato in coma una settimana fa." Mi esce fuori dalle labbra come uno sputo, un insulto. Mi è scappato di bocca senza che il cervello abbia avuto tempo di filtrarlo.
    "Abbiamo fatto tutto il possibile. Ora il risveglio dipende unicamente da lui."
    Queste sono state le parole con cui hanno languidamente congedato me e Noori, lasciandoci increduli e affamati di speranza. Parole del genere hanno risvegliato vecchi e mai cicatrizzati dolori, cacciati nelle profondità del passato, che trovato sempre il modo di riemergere.
    Non mi perdonerò mai per quello che è accaduto a mio fratello.
    Ma non posso pensarci ora, non con Hayoon che è in bilico tra vita e morte.
    Un altro colpo come questo non riuscirei a reggerlo.
    Frugo le mani all'interno delle tasche della giacca di jeans finché non trovo ciò che desidero. Un altro vezzo con cui mi piace tenermi occupato.
    L'accendino fa clic e la sigaretta che pende dalle mie labbra diventa un puntino rosso nello sfondo dello skyline che diventa mano mano sempre più scuro.
    "E tu invece? In quale reparto lavori?" Anche se mi aspetto un bel rifiuto da parte sua, probabilmente seguito da un discorsetto su quanto il fumo sia nocivo per la salute e bla bla bla, le allungo ugualmente il pacchetto di sigarette.
    Voglio aggiungere un commento su quanto fantastico il panorama che la natura cista offrendo in questo momento ma, ragazza mia, a primo impatto direi che tu voglia la notte dentro, una di quelle profonde e senza stelle, altro che romantici e confortevoli crepuscoli.
    qualcosa
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    «Sì, oggi ti è andata bene.» perchè non so quanti ne avrebbe trovati disposti a farlo stare qui zitto e buono come se nulla fosse, come se si trattasse del rooftop di chissà quale palazzo. In ospedali grandi quanto il Sacred è pure più facile, paradossalmente, trovare qualche spazio per rimanersene da soli senza noie - ne ho cercati abbastanza di spazi come quelli in questi ultimi mesi. Ma qui... qui è grazia se hanno fatto entrare me. Non piacciono troppo gli esterni, qui cercano di fare unicamente il loro dovere, perché i casi grossi li passano tutti a Manhattan, e allora noi rimaniamo dall'altra parte del vetro, a guardare, sapendo, il più delle volte, di possedere strumenti per noi tanto efficaci quanto inutili, se non fatali per loro.
    Oggi gli è andata bene, sì, un po' perché lo capisco, e un po' perché non ne ho la forza, onestamente. Non ce l'ho nemmeno per cercare parole il più possibili giuste. Non sono nessuno per consolare, al Sacred non lo faccio mai, non spetta a me, non mi è stato nemmeno mai insegnato a farlo. E poi ho poco da consolare, quando sono la prima inconsolabile. Per questo lo capisco, comunque almeno un po': cosa voglia dire sperare che qualcuno si risvegli o aspettare che si liberi e se ne vada, quello, onestamente non lo so. Non so come ci si senta a stare nel mezzo ad osservare con ansia un ago di bilancia che o non si sposta, o se lo fa ci si augura non troppo violentemente. So solo come ci si sente per il verso negativo: la speranza, nel mio caso, non è stata contemplata.
    «Mi dispiace.»
    Immagino non si possa dire di più di questo. Che sebbene il mondo e questa città sia piena di gente morta o in bilico, comunque, nonostante il mio poco sforzo, un po' di empatia riesco a provarla. Non per affinità - non saprei nemmeno come definirla - ma più per una sorta di naturale propensione alla vicinanza in tempo di sventura.
    La prendo la sigaretta: ormai sono in pausa anche io. Mi faccio passare l'accendino. L'accendo e aspiro la prima boccata. Fa schifo. Ma una sigaretta non si rifiuta, sebbene mi buchi un po' le guance quando il fumo lo spingo fuori dalle labbra piatte.
    «Diciamo faccio medicina generale. Sono una specializzanda, in realtà il mio ospedale è il Sacred Heart di Manhattan.»
    Ecco svelato l'arcano, il perché non me ne freghi poi alla fine, in realtà, un cazzo se se ne vuole stare qui, senza dar noia a nessuno, a fumarsi la sua sigaretta e guardare la città che tramonta nella laguna.
    «Comunque, la gente stà lì perché ce lo tirino fuori, il tuo amico. Però serve tempo.» purtroppo. Specialmente per gente senza un briciolo di Polvere, per i semplici nati "no-mag", come ci siamo abituati a chiamarli, anche se non si capisce ancora bene a chi appartenga veramente questo mondo. Che domanda del cazzo comunque, non ha senso, è solo pericolosa, ed io non so perché mi è saltata nel cervello proprio adesso. Forse perché sto pensando che se il suo amico fosse stato un mago le cose si sarebbero risolte in un lampo. Non sarebbe intanto qui, in questo normalissimo ospedale, e probabilmente se ne sarebbe già in giro, sulle sue gambe, a farsi la vita che per un breve istante è stata messa in pausa. Ma, ahimè, esiste anche questo tipo di ingiustizia, fino ad un certo punto: abbiamo tutti i nosti nemici mortali.

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    "Già, anche a me." Butto fuori un sospiro, le ombre che si allungano sul volto nonostante il sole si sia rifugiato dietro la collina da un pezzo.
    No, che non mi dispiace.
    Ho paura, dentro di me striscia una di quelle che non ti fanno dormire la notte, che è diverso.
    Chiamami pure sentimentalista, non me ne frega, ma Hayoon è molto più di un amico: è come un fratello che la vita, paradossalmente, mi ha donato nonostante io abbia lasciato indietro Theo, il mio fratello biologico.
    Fa male pensarlo, e fa ancora più male ammetterlo, ma è così.
    Non giudicarmi, c'è sempre una ragione per ogni cosa, persino in quello che ho fatto, è solo che non voglio pensarci più di tanto.
    Non ora con Hayoon che mi sta diventando sempre più sfuggevole e io non sono in grado di offrirgli un appiglio, di ancorarlo a questo mondo, e questo mi fa sentire terribilmente impotente. So che non dipende da me, né da Noori e persino nemmeno da quei beduini in camice bianco, gli sguardi colmi di biasimo e le parole dure, ma da Hayoon stesso. Ma questo pensiero non mi aiuta affatto.
    Resto con il braccio appeso, il pacco di sigarette aperto e proteso nella direzione della dottoressa, finché non vedo le sue pallide dita sfilarne una.
    Sollevo entrambe le sopracciglia e in contemporanea sgrano leggermente gli occhi, non aspettandomi per niente la sua mossa.
    Forse, e dico forse per la prima volta in tutta la mia dannata vita, ho davanti a me un medico che va contro quello che i suoi studi rinnegano da tempo immemore. Dunque, devo smettere di dare per scontato ogni cosa.
    Stiro le labbra in un sorriso sornione come gesto di apprezzamento. Fumare in due è sempre piacevole.
    Mi spiega che in realtà questo non è l'ospedale in cui lavora, bensì un altro a Manhattan, che dal nome so essere molto più grande e noto. Leggendo il suo badge quest'informazione mi deve essere sfuggita o forse non c'è proprio. Non mi fa tutta questa grande differenza, comunque.
    Non ho idea di cosa voglia dire con quel "Medicina Generale": che si stesse riferendo allo studio della materia in ogni branca? Boh, non mi azzardo a chiederglielo, non vorrei dare l'impressione di essere un somaro dai capelli ossigenati e con la sigaretta penzolante dalle labbra. Cosa che in realtà lo sono, non sono talmente stupido da non essere consapevole delle montagne che mi separano da chi, diversamente dal sottoscritto, gli studi li ha completati tutti.
    Sì, e non mi vergogno ad ammetterlo, ma a volte stare in presenza di chi i titoli con cui vantarsi ce li ha eccome mi fa sentire come uno di quelli che non contano.
    Eppure andare a scuola, stare seduto dietro a un banco e sorbire delle interminabili lezioni che non ti incuriosiscono minimamente, non ti stuzzicano l'appetito di sapere nemmeno un pò, non era tra le mie corde. Mettici questo insieme alle domande insistenti dei miei professori sul perché mi presentassi con la pelle livida e sul perché i miei genitori saltassero continuamente i colloqui con la scuola, sono giunto a un punto di non ritorno. In un certo senso, credo che mollare il liceo mi abbia salvato. Mentire ogni giorno ai compagni e ai professori dicendo di stare bene mi faceva sentire soffocato, prosciugato di ogni forza.
    Non nego che spesso penso a cosa sarei potuto essere se non avessi bruciato il diploma, a una diversa versione di me stesso che magari difende gli imputati, oppure costruisce edifici o persino cura le persone. E invece sono intrappolato qui, in una grigia palude che nasconde i cadaveri annegati dei miei sogni infranti.
    Una cosa è certa però: nessuna di queste mie versioni parallele è un maestro delle menzogne.
    Ascolto la dottoressa in un silenzio solenne, ma non indifferente. Nel frattempo tiro delle lente e pigre boccate di fumo, assaporando la nicotina che mi scorre nelle vene come un demone in cerca di globuli vergine.
    Non ha tutti i torti. So che la sua gente sta facendo il possibile per riportare Hayoon da me e da Noori, eppure non è abbastanza. Non mi fido di loro. Non riesco.
    Giro il capo dall'altro lato e mi gratto un sopracciglio con il pollice della stessa mano che regge la sigaretta. Sono sollevato che il buio stia scendendo su di noi come una coperta bagnata, non sono costretto a mostrarle l'imbarazzo che mi è sbucato sul volto.
    Non dico altro. Nè mi sforzo di cercare altre parole che intavolino una conversazione fatta e finita, che due sconosciuti sul tetto farebbero per scacciare il silenzio opprimente. No, lascio che i classici rumori della città sottostante riempiano l'aria tra noi e che diventino un sottofondo capace di estraniarci dai pensieri.
    A metà sigaretta, tuttavia, mi sale l'impulso di evadere da lì, da quella grigia e muta prigionia che è l'ospedale. Un bisogno a cui fortunatamente ho la giusta soluzione.
    Mi stacco dal cornicione e, mentre torno a puntare i miei occhi nei suoi, le chiedo di getto, come una secchiata d'acqua gelida in faccia: "Ti va di fare un giro in moto?"

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    Il fumo della sigaretta pian piano, lentamente, calma un po' le cose. Che cosa? Mah, semplicemente i pensieri. Li distende un po', li affusola e li fa fluttuare senza peso. Almeno non sono spigolosi, nervosi come sono di solito, inevitabilmente. Ci provo a rimettere i pezzi a posto, quantomeno a raccoglierli. Adesso non mi riesce fare molto altro, ma lo accetto, accetto di non riuscire a fare altro che pensare a questa ferita, no, a questo buco gigante che ho nello stomaco e che non mi fa dormire, non mi fa mangiare, mi permette solamente di indirizzare tutte le mie energie nel cervello e in quella parte razionale, meccanica, che se ne sta in un emisfero opposto a quello dell'emotività. Su quella non posso farci affidamento. E allora per evitare di fare cazzate mi spremo le meningi qui, in posti, da un certo punto di vista, terribili, e dall'altro perfetti: ne muoiono tanti in luoghi come questi, ma Lucian no, quindi non c'è rischio. Non so nemmeno come è che ci si possa sentire a sperare che il proprio amico, o qualcuno di caro, si risvegli, torni tra il resto dei viventi che si sentono soli. Non lo so, la mia è stata una separazione differente, uno strappo violento e imprevisto. Forse per questo mi aiuta ritrovarmi in situazioni diverse, opposte a quelle nelle quali ho vissuto io. Cioè… non lo so se mi faccia bene, so solo che mi riesce starci. Non mi spezza in due, almeno.
    Per il resto mi serve solamente tenermi occupata e non fare stupidaggini, come è successo con Horace. Quella me la sarei evitata, sì, con la giusta sobrietà dai pensieri del cazzo, sì, ne avrei fatto volentieri a meno, ma a quanto pare l'umiliazione personale deve essere una fase obbligatoria dell'elaborazione del lutto.
    La proposta, onestamente, non me l'aspettavo. Non che mi stupisca o addirittura scandalizzi, non sarebbe nemmeno la prima volta che accetto un passaggio da uno sconosciuto. Ma cerco di evitare scelte discutibili, quantomeno per non preoccupare troppo papà, che già fatica insieme alla mamma a sapermi necessariamente da sola a Sunset Park.
    «Cazz- invitare a cena non usa più?» ma no, onestamente non l'ho intesa neanche così, banalmente.
    «Sorry, non sei il mio tipo, biondino mi sfilo il mozzicone di sigaretta dalle labbra e mi chino per spengerlo in un angolo, tra il parapetto e il tetto, dove non si noti troppo la sua bruciacchiata presenza, e senza essere costretta a portarmelo sotto la suola delle scarpe - troppo poco ospedaliero.
    «E devo finire qui.» per poi andarmene a casa e tenere la testa lontana dai pensieri cercando di studiare ancora un po' e rimanere con il cervello qui o al Sacred, semplicemente lontana da Lucian.
    «Tienitela per un momento migliore questa carta. Non era così pessima.»
    No, in fondo era carina, dai.

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    Annuii con una punta di delusione negli occhi, ma che di colpo la camuffai con una scintilla di ilarità. Le risposte della dottoressa mi strapparono una smorfia di divertimento.
    Solo che perché mi avesse stupito accettando una sigaretta non significava che l'avrebbe fatto altrettanto con un giro in moto, così su due piedi. Avrei dovuto farmene una ragione.
    Però poi riflettei sulle sue parole, mentre il mozzicone tra le sue dita sfrigolava contro il muro fino a morire.
    Percepii una sensazione fastidiosa all'altezza dello stomaco, come una mano che lentamente stringeva la presa sulle mie interiora. Non volevo che lei avesse frainteso il mio invito, assolutamente. Ecco, non ci avevo mai saputo fare con le ragazze, specialmente quando credevano che ci fosse una possibilità, seppur minima, di un mio interesse nei loro confronti.
    Che non fosse il gentil sesso a scaldare il mio letto non era un problema per me, non lo era mai stato in fondo, ma non conoscere il modo giusto di chiarirlo senza suscitare imbarazzo o delusione mi faceva sentire a disagio nella mia stessa pelle. La guancia mi prese a pizzicare, laddove tempo fa una ragazza mi aveva stampato le sue cinque dita solo perché le avevo fatto perdere tempo con quello che lei aveva ritenuto come un falso corteggiamento.
    Ormai ero bravo a ricevere botte da chiunque, uomini e donne. Ero praticamente venuto al mondo per fungere come da sacco da boxe.
    "Neanche tu sei il mio tipo." Provai a chiarire, facendo spallucce. "Non hai la barba." Aggiunsi con naturalezza come dovessi esporle un dato di fatto, che il sole muore la sera e rinasce al mattino.
    "Beh allora…" Lasciai cadere la frase mentre con un sospiro raccoglievo le lattine della Monster, un dono che mi ero preso con la forza dalla dottoressa. Il sottinteso che il nostro incontro, architettato dal caso, fosse giunto alla fine era palpabile come il freddo della sera che attecchiva sulla nostra pelle.
    "Ti lascio alle tue cose." Guardai lo skyline che si estendeva alle sue spalle, avido di libertà che avrei provato soltanto una volta salito sulla mia moto. Il bisogno di fuggire da l' si stava facendo sempre più opprimente, tanto quasi da schiacciarmi il petto.
    "Non sentirti in debito con me per aver trovato il tuo badge. Ci ho già pensato io a saldarlo." Alzai di nuovo le spalle incastrando la testa tra esse, indossando un'espressione di finta innocenza. Sollevai anche le Monster, l'oggetto delle mie allusioni.
    Iniziai ad avvicinarmi all'uscita camminando all'indietro per non distogliere gli occhi dalla figura di Vivianne, avvolta nella sua divisa azzurra. "Ah dimenticavo, sono Cassian. Il tuo nuovo migliore amico."
    Non avevo la più pallida idea di quando e, soprattutto se, l'avrei rivista ma avevo bisogno di credere che dirlo a voce alta potesse rendere possibile un'altra sigaretta condivisa.
    A stento la conoscevo, ma il mio istinto mi suggeriva che introdurre una persona come lei nella mia burrascosa vita mi avrebbe fatto bene, come spalmare un po' di calmante su ferite ancora brucianti.
    "Ci vediamo, doc." Enfatizzai l'ultima parola imitando un saluto militare, prima di sparire dietro la massiccia porta di sicurezza.

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