Posts written by usul;

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    Squadra:
    • Jesse Grimes
    • Joshua Çevik
    • Dorian Rivera
    • Lara Lilnoir
    • Emeraude Kabakov
    Capitano: Jesse Grimes

    BONUS:
    • Jesse si veste in modo improponibile
    • Rexana nomina Arkel
    • Josh ringhia
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    jackals
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    new york accent
    31 y.o.
    the empress
    diana gallows
    Non arretra, non muove un muscolo se non quelli che regolano il sorriso che si incurva, assume una nota diversa, un punto che si sgancia da quelli più superficiali per essere l’incipit di una rivelazione che di sé lascia andare un pezzo in più. È il pezzo che deve cedere perché possa continuare ad infilare le mani lì dove cerca di allungarle, un bilancio sancito dal silenzio e dal semplice muoversi reciproco in quella situazione che diventa sempre meno traballante. Più violenta, ed è per questo più sincera, snudata da ogni apparenza per entrare mano a mano nel suo cuore più pulsante. Le piace, Dorian. Le piace la luce che gli si accende negli occhi, la furia che nasconde e poi lascia scivolare fuori come se fosse una minaccia che non può essere presa come qualcosa che le si aizzi contro, ma come qualcosa che invece riconosca una linea e tutti i passi da farvi sopra, per distruggerla e rafforzarla insieme. Non è un gioco, ma un campo minato in cui devono mostrare di sapersi muovere uno per l’altra, un tirare e spingere che la lascia a guardarlo per qualche secondo con una scintilla che sa di soddisfazione nello sguardo. Non è un ragazzo sprovveduto, è una bestia, non in quel modo che insulta e sminuisce, ma in quello che sopreleva e riconosce solo ciò che conta davvero e per quello è pronto a sbranare. Sfila la sigaretta dalle labbra, la lascia abbandonata nel posacenere quando preme le mani sui braccioli, lo sguardo ancora impuntato sul volto che si è avvicinato. Non è un’insolenza, ne ha una certezza granitica, istintiva. È qualcosa che viene gridato da ogni più piccolo dettaglio, e da tutte le sue implicazioni. È qualcosa che, invece, verte nel mondo opposto, in quello teso che si tende e aspetta solo di capire se quello scatto potrà essere qualcosa che sa di passi che si muovono in avanti. «‘O so» è una conferma che a Dorian non serve, ma che gli da lo stesso, come se fosse un tendine da tirare e tirare ancora prima di far scattare i muscoli con un moto rapido. «E bestia magari ‘o sei pure, ma da macello?» sorride di più, l’incurvarsi delle labbra che si tende come una virgola oltre cui trema tutto, in quel modo viscerale in cui il mondo sa tremare quando sull’orlo di un salto qualsiasi. Preme i gomiti sulla scrivania, sposta il busto solo appena più avanti con gli occhi che restano fermi su di lui. Sono sfide che si susseguono da ogni lato e così devono restare, asserzioni che lasciano spazio e manovre perché non siano un collasso quanto più un procedere. Per lei il punto è sempre quello, non si tratta davvero di condizioni, di implicazioni che sono scritte nelle ossa. Si tratta sempre e solo di cosa si è disposti a fare, e dove mettere quel limite. Il suo è così lontano da non poterlo neanche scorgere, e ne conosce il peso ed il prezzo, la certezza granitica scritta nelle vene. «Non penso proprio che ‘sta cosa te sta bene, o no?» ne è sicura perché sono lì, e perché Dorian non si è rintanato nel suo antro ma è lì, a reggere il rischio, a reggere la situazione e anzi controbattere. «Alcune bestie so’ fatte per azzanna’. Tu che voi esse’?»
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    sheetvoicelookmusic
    eså åkerlund
    dėlïshk - DIMENSIONAL TRAVELER - HALF-GENASI - CĘRILLIĀN - 24 y.o.
    He was warrior and mystic, ogre and saint, the fox and the innocent, chivalrous, ruthless, less than a god, more than a man
    La memoria. Non lo capii subito, ma poi sì. Lo afferrai d quell’insieme, fra parole e gesti, che mi colpirono alla stessa maniera, eppure opposta, di come mi avevano colpito quei suoni. La memoria. Qualcosa di incredibilmente prezioso, qualcosa che valutavo più di tanto altro perché era la sola a restare anche quando devastazione e distruzione portavano tutto via con sé. Solo la memoria di Yean Edhil sarebbe rimasta, solo la memoria di Al Sura avrebbe continuato a farla vivere così com’era stata; non una calca di sabbia e rovine, ma qualcosa di vivo e cocente come solo il sole sul Sarsham avrebbe potuto essere. Solo la memoria di Calien l’avrebbe resa eterna fra quegli stessi cieli: Caleem. Quando qualcosa smette di esistere, è la memoria a farlo perdurare. Quando siamo smarriti, è la memoria a inserirci sulle vie del ritorno. La memoria, tutto ciò che avevo che forse avrei avuto mai, quella prima di Idur, quella dopo Idur, e quella di Idur stessa. Quella di me. I nomi avrei potuto dimenticarli; forse un giorno non avrei ricordato le lettere e le sillabe che li componevano, tutti quelli che mi erano stati affibbiati, eppure sapevo che, sempre, ne avrei ricordato il senso. Era la memoria la mia consolazione più grande, nella memoria che potevo incontrare mio padre, mia sorella, Calien, Urjec, Saida Zayira ed Elmar Asad. Lo guardai per qualche istante, immobilizzandomi all’improvviso nel mio incedere per premere gli occhi su di lui. Mi sembrò terribile qualcosa di simile, non ricordare era per me peggio che morire. La morte, in fondo, non mi spaventava; avrei affrontato l’eterno ritorno e se Al Sahi voleva, sarei salito fino al suo firmamento per guidare le strade vuote di un mondo che non conservava altro di sé, se non quella stessa memoria incisa in tutto ciò che il Sarsham non avrebbe reclamato ancora una volta. Ma la dimenticanza sarebbe stato qualcosa di terribile. Tutti quei mondi che non esistevano più se non lì, fra i ricordi, avrebbero infine per davvero esalato quell’ultimo, disperato, fiato. Mi sentii pervaso da una sensazione che risalì dallo stomaco alla gola, ma mi lasciò forse un sorriso ancora più sincero sulle labbra. Era un’anima vagante ancor più di quanto avessi potuto pensare, all’inizio, scorgendolo, e per qualche motivo quella piccola, enorme, informazione, aveva fatto sì che la mia decisione di aiutarlo scavasse ancora più a fondo, andando a germogliare negli spazi della mia anima. Non avrei potuto essere come Saida Zayirah o Elmar Asad, ma avrei potuto fare quello, e non avrebbe ripagato nessuno, ma non era mai stato quello il punto. Gli equilibri erano in quel momento imperscrutabili per me, troppo trascinato nella direttiva delle mie vie buie dipanate di fronte a me, eppure quello mi era incredibilmente chiaro. Lo avevano chiamato John, come avevano chiamato me Threlasan, Minylath, come avevo chiamato me stesso Dėlïshk, eppure era qualcosa di completamente diverso. John non rappresentava niente di lui, non era stato scelto per qualcosa che gli appartenesse. «Mi dispiace» mi dispiaceva davvero, in un modo profondo. Era forse stata sempre la più grande controversia della mia vita: ero assolutamente consapevole di quanto morte, miseria e distruzione fossero fondamentali, eppure me ne sentivo colpito ogni volta, incapace di fingere che non m’importasse. Elmar Asad mi aveva detto che questo era ciò che significava essere umani, ma anche consapevoli di quei moti necessari. Gli estremi erano parti necessarie ad ogni esistenza, e senza uno o l’altro nulla avrebbe potuto esistere. Ignorarli, mi aveva detto, non avrebbe fatto di me qualcuno di più adatto a quel ruolo che avevo sognato di ricoprire, esattamente come aveva fatto lui. «La memoria» specificai poi, imitando di nuovo il suo gesto, come se fosse importante che almeno ricordasse il nome di ciò che aveva perso, un paradosso quasi intrinseco. Ripresi a camminare, sempre attento che mi venisse dietro, attento a non muoversi bruscamente, attento a mantenere la mia andatura pacata seppur rapida; volevo in fondo arrivare quanto prima possibile perché mangiasse. Il ristorante non era lontano, qualche altro attimo, una volta fuori dal parco, e si presentò di fronte a noi. «Per quanto riguarda... la memoria» iniziai ancora, mentre entravamo e interrompendomi per chiedere un tavolo per due, lasciando che ci conducessero ad uno libero. «Forse posso aiutarti a ricordare qualcosa» continuavo a parlare lentamente e a cercare di usare i gesti, anche se diventava più difficile man mano che i concetti si facevano più astratti. «A farla funzionare bene» aggiunsi allora. Non ne ero sicuro, era un forse, ma poteva pur in fondo essere qualcosa. Non avevo idea di quali fossero questi dottori, ma poteva tranquillamente essere che non avessero le doti che alcuni, in quella Dimensione, avevano. Esattamente come le avevo io.
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    ravius
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    ravius
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    lestrange
    Tipi così, un modo come un altro che poteva essere usato per descrivere certe fasce di inettitudine che si trovavano in uffici come quelli del MACUSA, o quelli del Ministero stesso. Neanche l’Inghilterra era purtroppo salva da certi atteggiamenti, da quell’impigrirsi mentale che coglieva certi uomini – senza ambizione, per forza, perché quella da sola sarebbe stata più che sufficiente ad essere carburante eterno, e ne era in fondo lui stesso una dimostrazione piuttosto pratica. Sfilò nuovamente il capello, lasciandolo adagiato poco di fianco al suo braccio premuto sulla superficie scura, il fastidio del tempo perso che non aveva spazio sulla sua espressione se non per un vago atteggiamento delle labbra corrucciate appena negli angoli. La scomodità di partire da zero era qualcosa che lo irritava, ma non sarebbe stato qualcosa che gli avrebbe fatto mollare la corda – anche nelle occasioni in cui mollarla sarebbe stata la mossa migliore, decisamente, Ravius non aveva mai imparato a farlo, né avrebbe iniziato a quarant’anni e più. Fece invece cenno per ordinare ancora una volta – un secondo scotch –, prendendo un lungo tiro dalla sigaretta annuendo appena al suo interlocutore. «Anche troppo» ammise, con rammarico, prima di prendere il bicchiere appena servitogli per prendere un sorso a fondo, sconsolato da quella situazione come lo era oramai da mesi. Se solo le cose al Ministero non fossero andate come avevano fatto, sarebbe potuto essere ancora nel suo ufficio disponendo dei migliori mezzi per mandare avanti i suoi studi. Non che ne fosse sorpreso, aveva previsto quella fine talmente anni prima, molto prima che iniziasse quel tipo di ricerche – altrimenti, ovviamente, non lo avrebbe mai fatto, non era mai stato il tipo da buttarsi alla cieca, semmai il contrario. Che le cose non andassero come desiderava era quel tipo di abitudine che aveva erroneamente associato alla sua infanzia ed adolescenza, anche se non avrebbe mai ammesso che quella era più la concreta consapevolezza dell’impossibilità che grava sulle sue ossa come solo madre e padre avrebbero potuto fare. Tuttavia, era anche un uomo abile all’adattamento – non senza qualche tenace lamentela, s’intenda – e aveva per tutta la su esistenza sviluppato quella stessa abilità in virtù della mera necessità. Ad esempio, nella sua lunga carriera al Ministero, si era abituato ad avere a che fare con ogni tipo di estrazione sociale – molte ben lontane dai salotti che lui, Quincy e Timotheus amavano frequentare nel tempo libero, pieno di uomini che in qualche modo avrebbero sicuramente potuto chiamare cugini, almeno uno di loro. Era anche quella una necessità, e quando diventava tale anche il suo sdegno e il suo fastidio si riducevano al punto da fargli sopportare cose che in altri contesti sarebbero state semplicemente troppo. Il fatto che in America, a quanto pareva, l’essere rozzi fosse una prerogativa come in Inghilterra lo era la buona educazione, aveva fatto sì che anche molti degli uomini che aveva puntato negli uffici rientrassero di diritto nell’abitudine al riadattamento dei suoi standard. Era il male minore, quello peggiore erano le serate di diletto costipate di nuovi ricchi senza un briciolo di educazione o classe. «Sono deluso, ero convinto che l’ovvio animo sottomesso del Signor Beck lo avrebbe reso un ottimo candidato, tuttavia è semplicemente troppo sottomesso per essere di una qualsiasi utilità» prese un secondo sorso, voltandosi a guardare l’uomo a cui si era avvicinato, con la nonchalance che può essere valida solo in situazioni come quelle. «E tu, lo segui da molto?» an che il tu era qualcosa di dovuto in situazioni come quella, qualsiasi forma colloquiale più adatta non avrebbe che stonato in certi ambiti ed ambienti. Ed era del resto certo, come doveva esserlo lo sconosciuto, che qualsiasi cosa stessero cercando dal Signor Beck non poteva essere ottenuta semplicemente entrando nelle stanze della Piramide chiedendo ad una receptionist – doveva essere qualcosa di altrettanto complesso su cui mettere le mani, informazioni top-secret che sapeva, per esperienza, essere difficili da reperire.
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    ex-unspeakable corrupted british accent 41 y.o. the tower
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    only JohJosh <3

    jackals
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    31 y.o.
    the empress
    diana gallows
    Non si scompone, mantiene quel personaggio che ha disegnato per una sera come quella, per metà della sua vita e forse di più quando quello che sa diventare meglio è una ragazza frivola dai capricci di bambina. Lascia il sorriso, il volto sereno anche quando si accostando quando in fondo sa vedere tutto con occhi che non si fanno mai opachi e riescono invece a far scintillare il mondo come un diamante grezzo che aspetta solo di essere modellato. Conosce già il suo nome, come conosce di quella città ogni cosa, dai segreti più sordidi alle mode più in voga per essere matassa stessa di quel tessuto senza perdersi mai. «Per nostra fortuna io invece sono un’ottima ballerina» è una voce soffice che scalfisce appena la superficie, è quella che si riserva a conoscenze incerte ed appena accennate senza tradire mai un punto o l’altro per essere invece soggetto di scrutino. «Diana Gallows» aggiunge con lo stesso tono che usa sempre quando dice quel nome, cresciuto fra le strade di asfalto e palazzi di vetro che si sono fatti alti ed immensi, e che sotto ancora nascondono ogni possibile marciume. È parte anche di quello, una fierezza velenosa di cui a stento ci si può render conto quando trabocca di tutto quel resto che mette lì per rimarcare solo la leggerezza che ci si aspetterebbe da lei. Lo segue nei suoi gesti liscia quando in fondo imbarazzo e vergogna non sono mai state parte della sua essenza, perfino quando ancora bambina non aveva modo di capire molto di quel mondo adulto e sottile fatto di troppi punti ammucchiati per poter essere compresi. Ha solo in parte mentito quando in fondo parlare di politica è l’assioma della sua vita, di quella politica tradotta in vicoli e possessioni, sancita con la violenza piuttosto che con voti e volti sorridenti. Ma esiste per tutto una seconda, terza e quarta faccia, un volto che se ne sta sul retro di ogni scena e nasconde tutto. È lì per annusare il sentiero, e in fondo lei ed Emma sono più di presenza che per gettare davvero reti che possano rafforzarle. Questioni delicate che non potrebbero comunque essere svolte lì, non ancora, non quando non conoscono abbastanza e mancano ancora le consapevolezze di punti morbidi in cui poter premere. «Sono sicuramente abituata a peggio» è una battuta, ma di quelle che dietro la gola, nel petto, sanno di realtà che premono con forza, ma mai evidenti per essere alla mercé di chiunque quando sono intimità consacrate a religioni virulente. «Com’è andata questa serata prima di essere incastrato con me?»
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    AGGIORNONE
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    Tutto Astrea <3


    ravius
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    lestrange
    «Incredibilmente, solo tramite matrimonio, almeno da parecchie generazioni» aveva il tono divertito che riservava sempre ai grandi schemi – o piuttosto minuscoli – delle antiche famiglie. Non che non ne comprendesse il senso, ma era nondimeno un vero diletto seguire certe vicende. Era piuttosto appassionato allo spazio di annunci matrimoniali della Gazzetta, che continuava ad essergli recapitata anche in terra straniera. «Mio zio, Rodolphus, ha sposato quel prezioso gioiello quale era Bellatrix Black» l’ironia, quella volta, era modulata perché fosse ben chiara nel tono della sua voce e nell’atteggiamento delle sue labbra, impunemente curvate verso l’altro – anche se nel modo modesto che ci si poteva aspettare da un uomo come lui ed in commenti simili. Padre aveva forse pensato che il matrimonio di suo fratello fosse stato sotto certi aspetti assai più conveniente del suo – del resto i Gaunt avevano da tempo immemore perso tutto eccetto il nome, perfino una linea di sangue diretta che avrebbe potuto salvarli dall’oblio. Eppure, nondimeno, era stato tronfio nel poter dichiarare natali così diretti a Salazar in persona. Nessuno di loro aveva fatto una fine orgogliosa, e neanche vagamente decente. Se ne compiaceva ogni giorno della sua vita, bastava il pensiero di padre a marcire ad Azkaban a tirarlo su di morale in qualsiasi momento della sua vita. «Devo ammettere che la mia famiglia ha sempre fatto i salti mortali per evitare incesti troppo sontuosi» del resto, sospettava fosse questo uno dei motivi per cui avevano scelto proprio Quincy per Raelyndra – cosa di cui sarebbe stato eternamente grato, perfino padre e madre erano capaci di prendere una decisione buona quando si sforzavano, ma ahimè, ciò non era stato infine sufficiente per nessuno dei due. «Come hai notato, non è cosa facile. Richiede un certo impegno, e parecchie notti insonni» le rivolse uno sguardo divertito prima di accarezzare per un attimo la pista con lo sguardo. Era lieto che la sua partner fosse stata, infine, Astrea – certo avrebbe avuto da ridire in molti casi, ma alla fine poteva dire di aver ancora una volta beffato il destino per uscire con una mano più che vincente. Avrebbe scarsamente sopportato la poca grazia, intelligenza e intuito di una partner, consapevole che in quel caso avrebbe dovuto ricorre a tutte le sue doti attoriali – deliberatamente sviluppate proprio per situazioni come quella. Tuttavia, nulla di tutto ciò si era rivelato necessario e quella che aveva quasi rischiato di diventare una serata quasi tragica, dopo quel piccolo quasi incidente – un connubio di parole che gradiva parecchio –, si era alla fine mutata in una piacevole danza con una donna con cui la chiacchiera veniva facile ed arguta. Quel piacevole intermezzo sulle divertenti disavventure delle consanguineità Inglesi era presto sostituito da un altro argomento che nondimeno stuzzicava tutta la sua attenzione. «Mi rubi le parole di bocca, Astrea» incredibilmente onesto anche in quello, del resto era stato proprio lui, adolescente, a ripetere ai suoi amici che avrebbero dovuto conoscere a fondo ciò che volevano combattere – o ciò da cui volevano difendersi –, e che l'ignoranza sarebbe stata sempre il primo strumento della paura e, peggio ancora, della sottomissione. Il fatto che probabilmente Astrea non avrebbe di certo condiviso con lui gli scopi che quella dialettica avevano promosso ai tempi, era una questione del tutto secondaria. «Ne abbiamo esempi calzanti in un periodo neanche troppo distante, ne porto la memoria come molti di noi» nonostante il riferimento ovvio alla guerra contro Voldemort, non aveva incupito né il suo sguardo né la sua espressione – era buonaeducazione non rendere truce il vivace scambio di battute che stava incorrendo fra loro due. «Per quanto mi riguarda, purtroppo sono destinato ad essere un uomo da biblioteca, o in gergo: topo. Ho dedicato la mia vita alla ricerca in Inghilterra, spero di trovare anche qui qualcosa che possa solleticare la mia curiosità ed attenzione. Di materiale, ne converrai, non ne manca affatto» del resto poteva di certo dire – non a lei, questo sarebbe stato fin troppo simile ad un suicidio, se non altro sociale – che l’America in fondo vantava un terreno assai più proficuo rispetto ai suoi campi d’interesse. Doveva pur esserci qualcosa in cui, in un certo modo, superasse la sua antica padrona – anche se forse i Ministeriali avrebbero detto che non era di certo un vanto, e lui avrebbe volentieri convenuto solo per non dare quel punto ad una terra tanto povera di intelletto e qualsivoglia classe. «Ma ti prego di ritenerti invitata nella piccola dimora che mi sono scavato, per assaggiare un po’ della vecchia ospitalità britannica» un invito esteso con onestà, non avrebbe mai smesso di dire quante poche erano le persone la cui compagnia, in quel mondo, avrebbe potuto dirsi davvero piacevole. Una rarità a cui si era ormai da mesi rassegnato. «Tu piuttosto, come procedono i tuoi progetti? »
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    Twenty-Eight
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    Un po' sorrido, anche se non so come venga fuori. Se è una di quelle cose che se ne stanno solo un po' lì, sulla faccia, senza senso. Lo so che dovrei trovare un modo per far smettere a quel click di scattare semplicemente sempre, come se tutto potesse essere un rimando. Lo so che passerà. Che ci sarà un periodo migliore di questo e se potessi ci salterei, ma poi non è vero perché non sono così. Non sono sempre stata quella che ci resta attaccata, alle cose? Penso di sì, e penso che tante cose siano successe per questo nella mia vita, ma non questo. E del resto dovrei essere grata per tutto, perché qui non ci sarei quasi dovuta arrivare, quei bambini non avrei dovuto averli, e tutto quello che ora scava il vuoto non avrebbe mai dovuto esserci. Quindi, non lo so. Mi viene solo un piccolo sorriso e basta, forse perché qualcosa di eterni bambini ne so, anche se ora la casa sembra più vuota, anche se pochi non lo siamo. Lo sembra lo stesso. Come macerie che sono state ricostruite da un'idea vaga di quello che un tempo fosse quello stesso posto. È negli spazi fra i silenzi che sta la fregatura. Non è tanto il resto, che loro due fossero fuori per tanto tempo era qualcosa a cui ero abituata, più o meno. È che non c'è neanche tutto il resto. C'è solo quello che c'è già stato, e tutte quelle cose che non hanno avuto opportunità, quelle ossessioni che arrivano sempre quando poi c'è un punto che non permette ad altro di andare avanti. Ma sorrido, perché in qualche modo passerà, e non so proprio se sentirmi meglio per questo. «Va benissimo» andrebbe bene qualsiasi ora, non è che dorma tanto. Lizy è ancora piccola, ancora piange la notte e mi tiene sveglia. Ollie ha quella porta chiusa, e io che non so come gestire così bene con lui tutto questo. I gemelli sono sempre impegnativi, ora forse un po' di più. Vorrei se non altro sembrare una persona normale, ora come ora. Almeno agli altri. «Allora ti aspetto» ed è finita qui, con me che spero solo che davvero io da questo riesca a prendere qualcosa. Che riesca a essere abbastanza. Picchietto la mano sul tavolo, poi mi tiro su. «Buon rientro, e passa quando vuoi» le faccio un cenno, un altro sorriso mentre prendo il bicchiere ancora pieno dal tavolo.
    ex-maledictus ▪ animagus ▪ double deuce owner & waitress ▪ 32 y.o. ▪ new york accent
    crain
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    crain
    crain
    edie
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    CHE NEFFUNO MI TAGLI LA FTRADA
  10. .
    wolf wool pack ▪ ex-whyos ▪ 31 y.o. ▪ sheetvoicemusiclook
    mitja

    grimes
    lycan
    theta
    russian
    adopted
    «Guarda che ti spacco la faccia» lo dice con un sorriso, la sigaretta incastrata fra i denti mentre guarda Jesse e quella palla che ormi fa da basso alla conversazione, e fa vibrare i muri quasi allo stesso mondo. Per lui l’aria è già cambiata. Per lui hanno già risolto, perché ora che la parte cervellotica è da parte non resta che mettersi a fare le cose pratiche, ed in quello è capace. È sempre stato uno a cui serve avere un obiettivo preciso, ma mai venuto da lui (quelli sono un casino, sono quelli che lo mandano in panne, e forse è per questo che la sua vita sembra lo scarabocchio di un bambino di tre anni, ad esser buoni). Quella è la sua gente, e qualsiasi cosa possa accadere sente che sarà sempre così. Del resto, proprio loro, hanno passato il suo peggio, e se sono rimasti anche dopo quello è convinto che neanche lui possa farla così grossa da farsi mandare a faculo (non vuole provare a scoprirlo, però, il che è decisamente un bene). Ride ed agita la bottiglia in direzione di Lara al pensiero che lei possa far qualcosa per cui lui debba tenerla d’occhio, è uno di quei pensieri che riguardano sempre le sue convinzioni invalicabili su certe cose di quelle persone. Su Jesse, su Lara, su Noah, su tutti quanti. Poco importa, alla fine, qualsiasi cosa succeda. «Al massimo ti preparo un letto e facciamo cazzate insieme» le ammicca di nuovo, butta giù un altro sorso, e non dice altro perché lo conoscono entrambi e lo sanno che è solo uno dei suoi milioni di modi per dire che non deve preoccuparsi, Lara, qualsiasi cosa succeda sarà sempre dietro al suo culo, pronto a pararglielo o anche a raccattarlo se serve. Si alza solo dopo, ancora una volta, l’impossibilità a stare fermi che deve essere un pre-reqauisito Grimes, anche se Jesse è decisamente peggio di lui. Si schiaccia contro Lara, forzandosi nello spazio in quel modo fraterno che non è molto diverso da come prende Jesse a cazzotti, o ci prova (è un’anguilla, beccarlo è più difficile di quanto uno possa immaginare, lui e le sue gambette da atletica). «Giuro su quello che vuoi che se anche questa se la scopa Jesse io mi licenzio» fa solo finta di mormorarlo a Lara, ma lo dice di modo che anche Jesse possa sentirlo forte e chiaro. «Tienitelo nelle mutande, e lasciane un po’ per noi altri cazzoni» gli tira un fischio per sottolineare la cosa, anche se è un dato di fatto che Jesse acchiappi più del miele con le api. «Quindi ora abbiamo finito di fare i seri?» che è una cosa che decisamente non gli si addice.
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    jackals
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    31 y.o.
    the empress
    diana gallows
    Il suo non è un mondo che chiede, che concede, è un mondo di pretese come ferite aperte che possono solo continuare a sanguinare ancora ed ancora. Ne ha saggiato la lama da ogni direzione, come arma e come affondo che ha saputo an dare talmente in fondo da minacciare di annientare ogni cosa. È questo che le ha insegnato ad osservare prima di qualsiasi cosa, ad imparare a conoscere nell’intimo ogni terreno su cui si trova per sapere sempre come muoversi e reagire prima che qualcosa crolli irrimediabilmente in frantumi. Lo stesso vale per Dorian quando ogni equilibrio è sempre troppo precario, sempre imprevedibile capire cosa potrebbe romperlo e non lasciare altro che cocci che s’infilano violenti fin sotto lo strato più profondo del derma. Non prende la coca, se lo annota come annota il mutare della sua espressione che ci contorce su una parola che lei conosce bene, una che è sevizia e salvezza in un intreccio inscindibile. Famiglia. Forse per questo trova le sue stesse labbra a corrugarsi con solo la punta di una nota più sincera, una comprensione che per quanto superficiale affonda negli stessi miasmi bollenti. Quello che deve reggere sulle sue spalle è più di un impero, quando in fondo da quello stesso regno dipende una vita che potrebbe dire essere la sua quando la necessità di quell’esistenza è pilastro primo per la sua. Lo sa cosa ha fatto lei per la famiglia, ha ucciso la sua stessa madre a sangue freddo quando è diventata minaccia insidiata troppo a fondo come un veleno più pronto a distruggere dall’interno che ad essere sputato per diventare virulento contro ogni nemico. «Non te fidi, lo capisco» non si scompone, difficilmente lo fa se non quando mani estranee cercano di infilarsi negli anfratti più privati, quegli spazi di cui è guardiana e a cui non lascia accedere mai nulla che possa ancora reclamare anche solo un respiro. Sono poche le persone che possono dire di conoscerla, forse in fondo ne esistono solo due che sono ammesse agli altari delle sue verità, lì dove basterebbe un soffio a farla crollare come ammasso di carne ormai fatta di cenere, senza niente più a sostenerla in quel mondo che sa sempre e solo divorare ogni cosa e non dare clemenza mai. Sposta appena lo sguardo alle spalle di Dorian, nel punto in cui sente la porta bussare e concede l’ingresso ad uno dei ragazzi che porta i bicchieri che ha chiesto prima. Aspetta che li prema di fronte a loro, due penicillin per cui non ha chiesto a Dorian quando in fondo sono più uno sfondo che altro. Quando sono di nuovo soli torna a guardarlo prendendo un sorso breve, quando il palato è già anestetizzato dalla cocaina e le da quella sensazione formicolante sulla lingua. «Non te vuoi immischia’ con ‘sta roba, capisco anche questo» poggia di novo il bicchiere sulla scrivania, cercando un’altra sigaretta anche quando ha appena spento l’altra. Le necessità iniziano ad essere impulsi cesellati nella sua mente, eppure riesce ad essere perfettamente lucida quando quella è un’abitudine che le è cresciuta nelle ossa quando ancora giovane, non aveva ancora afferrato davvero la prigionia della sua stessa realtà. «Non te voglio obbliga’ a fa niente» accende la sigaretta chinando solo per un attimo il capo verso la fiamma, prima di tornare ancora con gli occhi su di lui. Prende un tiro guardandolo come se fosse un testo da interpretare, e in fondo si tratta di questo. C’è sempre cautela prima di salti che nel vuoto, per lei, non lo sono mai. Non possono esserlo, è un lusso di cui è priva da quando è nata, vittima dello stesso sangue che la nutre. «Non sto a cerca’ qualche altro sottoposto, se è questo che pensi. Non è una di quelle chiacchierate» un secondo sorso, un altro tiro che trascina a fondo nella gola. «Non c’avrebbe senso, sai perché? Perché se eri interessato te saresti fatto già avanti tu, e non sono lo zio Jack che va torno torno cercando di fottere la gente e pigliarsela per sé» piega appena la testa di lato. «Non c’ho interesse ad essere la stronza di questa storia. Me preoccupa solo che chi sta qua stia apposto» gli sorride ancora, la mano che aleggia sopra il posacenere, la punta della sigaretta grigia che avvizzisce e crolla di secondo in secondo.
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    Peskipiksi Pesternomi
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    jackals
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    the empress
    diana gallows
    Lo analizza in quel procedimento continuando a prendere tiri molli dalla sigaretta. L’Alchimia è qualcosa che conosce solo nell’esistenza, ma non è mai stata nelle sue corde. Sa solo quello che le serve sapere quando è la fuori e deve pensare a come renderla coesa con quello che sa fare lei. C’è sempre uno scopo per tutto, questo anche Dorian sembra averlo capito, ed è una cosa che sa non può essere insegnata. È istinto e il mondo si divide in due categorie: chi se ne rende conto e chi no. I secondi possono sempre e solo essere carcasse da sfruttare, carne da cui prendere e pretendere con il suono di un sussurro. Nessuno con cui valga scambiare più di un paio di parole giuste per piegare tutto al proprio volere. «Mai stata ‘na cosa per me, l’Alchimia» apre un altro cassetto, ne tira fuori una piccola scatola di metallo senza infamia e senza lodi, rettangolare e liscia non serve a niente se non a contenere. La preme sulla scrivania facendosi avanti, le parole e le domande del suo interlocutore che le si sfilano di fronte come pezzi di vetro rotti, come singole gocce di un temporale che le batte contro la finestra e chiede la sua attenzione, e lei gliela da. Ma conosce anche il mondo della scoperta che deve essere lenta, lacerante nella sua stessa essenza come un veleno che non deve mai mostrarsi prima del momento giusto. Apre la scatola, ne tira fuori il cucchiaio minuscolo con cui prende la cocaina che avvicina alla narice tirandola su con un gesto secco, prima di lasciar cadere di nuovo l’arnese lì e premerla più vicina a lui in un invito silente che può prendere come no, in un modo o nell’altro sono tutti sulla stessa lurida barca. La cosa curiosa di una famiglia come la sua è che anche al vertice ha lo stesso malessere di chi è sotto, ha solo più soldi per coprirlo, mascherarlo, ma spezza le viscere allo stesso modo, le contorce fino a renderle bile che si può solo sputare o ingoiare perché continui a corrodere tutto dall’interno. «E te prego chiamami Diana, non sono de certo una di quelle vecchie stronze che bada a certe stronzate» il rispetto è diverso da qualche parola imbellita come un gioiello messo sull’odio, il fastidio, o il semplice fregarsene di una cosa o una persona. Sa anche questo. Non ha bisogno di un titolo perché è nata senza e quello che ha se lo è preso con le unghie ed i denti, lo ha lacerato e masticato strappandolo da tutta la carne che le si è posta di fronte aspettandosi che se ne stesse solo buona. Ma buona non ha mai imparato ad esserlo, se non nella scena che mette in atto di tanto in tanto quando è quello che serve ad arrivare dove le serve. «Nessun reclamo» spegne la sigaretta, si preme in avanti fino a poggiare i gomiti sulla scrivania per guardarlo. «Ho saputo che c’hai avuto problemi poco tempo fa, quasi qua fuori» è un punto che le vibra nelle costole, e non può che essere così. «Questa è zona mia» c’è tutta la fierezza di cui è capace, uno sputo di sillabe che si scandisce sulla lingua come una droga che vibra nelle vene. «La gente non se può prende’ certe confidenze co’ sto posto. Co’ me» non lo sta chiarendo a lui, la sua è una dichiarazione perenne che fa al mondo. Non importa quante ossa deve spezzare perché diventi chiara, quante gole tagliare. «E quindi co’ te» torna indietro con la schiena, accavalla le gambe continuando a guardarlo con la testa che scatta di lato, un gesto che la porta ad analizzarlo meglio. «Te va di dirme che è successo?»
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    sheetvoicelookmusic
    eså åkerlund
    dėlïshk - DIMENSIONAL TRAVELER - HALF-GENASI - CĘRILLIĀN - 24 y.o.
    He was warrior and mystic, ogre and saint, the fox and the innocent, chivalrous, ruthless, less than a god, more than a man
    Avevo visto così tante cose nella mia vita, a quel punto, eppure ancora non avevo del tutto forse perso la capacità di meravigliarmi. Un pezzo lo avevo perso a Neorosis, di più ancora quando Calien non ne aveva fatto ritorno se non come un corpo senza più nulla da dare; un po’ ne avevo perso quando avevo guardato quelle dune, le mie dune, deperite senza vita, senza una voce od un coro che si alzasse fra le distese che avevano cantato e cantato e raccontato ogni possibile storia come solo Al Sura sapeva fare. Iniziava ad essermi sempre più chiaro il concetto dell’essere perseguitati dal passato, una maledizione che mi sembrava essermi stata cucita addosso da quella donna a Peler, ormai anni prima, e che pareva ora mi seguisse come fosse la mia stessa ombra. Eppure, Cailen mi aveva sempre detto che dovevo ricordare palmo contro palmo. Mi ero chiesto spesso, in quei tempi, quali sarebbero potute essere le sue parole. Erano passati mesi, anni, eppure quel bruciore era rimasto uguale, così come lo era rimasto nei suoi occhi dopo Yean Edhil. Cosa mi avrebbe detto, allora? Riuscivo a sentire il suono delle sue parole, eppure il senso mi sfuggiva, come doveva sfuggire a quell’uomo di fronte a me, messo in un mondo di suoni cacofonici da cui acciuffare sensi per non esserne sommerso. John, mi sembrò quasi un nome stonato per lui, per quelle sillabe che avevo colto così distanti da quei suoni che invece componevano quel nome. All’epoca forse non me ne rendevo a pieno conto, o non con quell’insistenza massacrante che avrei scoperto poi, ma avevo bisogno di trovare, che quella ricerca che mandavo avanti da quando ero solo un bambino, d Idur e forse ancora da prima, quando con mia madre e mio padre saltavamo di mondo in mondo perché nessuno di noi ne aveva uno da poter chiamare casa, finisse. Avevo bisogno di avere un punto che dicesse che ero arrivato e forse, lì, avrei potuto cercar quello che di me sentivo di aver perso. Forse alla fine era stato questo a farmi avvicinare a quell’uomo che esattamente come me, sembrava smarrito in una città che troppo facilmente fagocitava i silenzi fino a cancellarli. Un Ulisse che vagava in acque incerte fatte di asfalto e cemento. Forse, alla fine, si trattava di qualcosa di così semplice dopo aver affrontato cose che in molti avrebbero detto essere semplicemente impossibili. Fame era qualcosa che avrei potuto risolvere, di più ancora comprendere. I soldi non erano mai stati un problema, per me, e forse era stata la consapevolezza di essere nato Principe di un mondo ormai morto a farmi crescere senza tenerne conto, o forse erano state le catene di Idur e quel nulla che mi era stato dato lì, mai abbastanza per placare le strette dello stomaco o l'arsure della gola. «Io li ho» continuavo ad usare i gesti, un metodo che mi sembrava assai più appropriato di ogni frase complessa che avessi mai utilizzato. Era anche quello un linguaggio, ed anche quello per questo terribilmente importante. In quel momento ancora di più, quando le nostre voci non avrebbero potuto essere comprese uno dall’altro. «Tu non preoccuparti» scandivo tutto, pezzo per pezzo, continuando con quella flemma lenta perché potesse comprendere la connessione fra le singole lettere. «Vieni, uso i soldi io» annuii per accertarmi che avesse capito prima di iniziare a muovermi, voltandomi perché fosse incitato a seguirmi. Conoscevo bene i ristoranti, i luoghi in cui mangiare, e avevo compreso come in quella città vi fosse una moltitudine complessa di culture e luoghi talmente diversi uno dall’altro da essere una cacofonia che manteneva la sua armonia. C’era un Indiano non lontano a cui ero stato spesso, e che gradivo per via di quei sapori speziati e più forti che mi avevano ricordato, seppur alla lontana, ciò che avevo mangiato su Al Sura. «Da dove vieni?» era stata un po’ più difficile da mimare, ma mi ci ero impegnato. Era importante anche che ci conoscessimo, almeno fino al punto in cui si sarebbe potuto fidare di seguirmi in una città di cui non comprendeva neanche la lingua. E volevo saperlo. Volevo sapere da dov’è che venisse, quale fosse la storia di un uomo che sembrava non aver niente, non conoscere la lingua, e che pure si era ritrovato a Central Park, in mezzo a tutti gli altri.
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    Emma, Magnus e JOSHY

    jackals
    influencer
    new york accent
    31 y.o.
    the empress
    diana gallows
    Svuota il bicchiere che ha in mano con un altro sorso che sfrutta per muovere lo sguardo, individuare ancora la posizione di nomi che potrebbero essere tacche o rogne sul passaggio, ma nulla che in fondo possa davvero spaventarla quando conosce quanto possono fare. Adesso i Jackals sono più forti, adesso non hanno rivali in una città che implora solo per essere messa in ginocchio al loro cospetto, a quello di suo fratello. Lascia scivolare il bicchiere vuoto sul bancone mentre lei vi si appoggia con l’atteggiamento che resta quello leggero, anche se i sensi si sono fatti più affinati ancora adesso che esiste un’incognita sulle loro teste. Non le piacciono, le incognite. Le piace però esplorarle, anche a suon di denti ed unghie se necessario, sviscerarle pezzo per pezzo così da conoscerle e non lasciare mai nulla al caso. Segue con gli occhi i movimenti di Magnus, le labbra ancora corrucciate in quel modo che resta fissità immobile eppure cangiante della sua espressione, attenta e focalizzata adesso su quello che si dispiega per loro fra le mani dell’uomo. «Questo è poco ma sicuro», la risposta ad Emma non lascia tracce sul suo volto, ma piega quel tono mentale perché possa essere l’eco di un sorriso che nonostante tutto è divertito. «Non penso, abbiamo decisamente superato quella fase» superata e sepolta, bruciata vita quando poi è arrivato Nate. La lealtà che prova verso la sua famiglia viene sempre prima di tutto quando anche le sue pretese lo sono nascoste e solo a metà, strappate in più punti così che anche nel prenderla possa ferirsi le sue stesse mani e sentire sempre quanto in questo siano sbagliate. Segue ancora i movimenti di Magnus quando arriva il turno del suo cocktail, che prende fra dita affusolate ed alza appena come un brindisi silenzioso. «Sembra delizioso» è sempre stata una donna che apprezza di più l’aspro, la crudeltà nuda di sapori che torcono la lingua e scavano a fondo, anche se quello non sarebbe stata la sua scelta può ammettere che se ne resta sulla stessa strada. «Seh, ho proprio bisogno di una bella botta» non ha bisogno di parafrasare quando sono solo lei ed Emma ed un contatto che non può essere intercettato. Prende un altro sorso dal secondo cocktail, seguendo distrattamente quella connessione che spingerà anche lei lontana dal bar, verso lidi diversi che hanno la possibilità di infilarla in una situazione che è pronta a sfruttare. Ma alla fine quella che si trova a scrutare è una figura che non rientra nei piani che potrebbero portare i Jackals al passo successivo, ma non ne è scontenta. Dopotutto, sono uscite per una serata che potesse essere meramente piacevole. Butta giù il secondo bicchiere per lasciarlo al bar, muovendosi verso Joshua Çevik senza esitazioni perché di quelle non ne conosce mai neanche l’ombra, nata di una consistenza che le ha inciso nella carne e nelle ossa ogni punto della sua esistenza come marchi a fuoco. Lo conosce di vista e di vicinanza, lo conosce di voci stampate che cercano sempre di strappare tutto via da chiunque, le stesse che monitora perché possono nascondere punti nevralgici che possono essere piegati o rotti, le stesse da cui è la prima a nascondersi quando certe cose non sono fatte per essere di tutti. «Sono sollevata» inizia, alzando la mano a da cui spunta il filo. «Ho avuto paura di finire incastrata con qualche borioso politico» gli sorride anche se qualsiasi carta le fosse capitata, quella sera, avrebbe trovato un modo di rigirarla fra le dita. È solo il caso ad aver scelto che invece fosse una pausa e non un dovere quel momento. «Ci conosciamo, più o meno, anche se non ci siamo mai presentati come si deve» New York è incredibilmente piccola quando quelli che frequenti sono certi ambienti, e lei li frequenta tutti.
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4728 replies since 20/1/2015
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